SCHOPENAUER

 



Il filosofo Arthur Schopenhauer nacque a Danzica (Polonia) nel 1788, figlio di un banchiere e di una nota scrittrice di romanzi. Le pressioni del padre affinché proseguisse la strada da lui segnata non ebbero successo e, iniziato all’amore per la letteratura dalla madre, proseguì gli studi di filosofia sino ad abilitarsi alla libera docenza. Il suicidio del padre e il turbolento e contraddittorio rapporto con la figura materna segnarono profondamente il pensiero di Schopenhauer, ben sintetizzato nella sua opera più famosa Il mondo come volontà e rappresentazione. La prima edizione del suo lavoro (1819) non riscosse alcun successo e solo vent’anni dopo vide la luce la ristampa de Il mondo.    


Il motivo principale degli scarsi consensi accademici e di pubblico ricevuti risiedeva nell’avversione di Schopenhauer per la filosofia idealistica, molto in voga a quel tempo. In particolare, il filosofo era solito attaccare Hegel, appellandolo come un “sicario della verità”, un “ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato” la cui filosofia, lungi dall’essere al servizio della verità, era mercenaria, utile agli interessi della Chiesa e dello Stato. 

Schopenhauer rivendicava la libertà e l’autonomia della filosofia e sfidava apertamente il successo di Hegel organizzando lezioni di filosofia nella stessa università, negli stessi giorni e agli stessi orari. 

Sino all’ondata di pessimismo che avvolse l’Europa dopo il 1848 Schopenahuer, però, non riuscì ad emulare o intaccare il successo del filosofo idealista. Mentre le aule universitarie erano sempre gremite in occasione delle lezioni di Hegel, solo pochi studenti frequentavano gli insegnamenti di Schopenhauer. A tal punto che quest’ultimo si difese osservando: “Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto”.     


Schopenhauer morì a Francoforte nel 1860, lasciando ai posteriori un’eredità complessa e mai spenta, a tal punto da essere ancora ai nostri tempi citato dal regista Roberto Benigni nel film La vita è bella o dal cantautore Francesco Guccini in un verso della canzone Il frate.    


È, infatti, la distinzione kantiana tra fenomeno (la cosa come ci appare) e noumeno (la cosa in sé) a costituire il punto di partenza del pensiero di Schopenhauer. Quest’ultimo pensa infatti di aver capito qual è la via d’accesso per il noumeno, cioè la realtà che si “nasconde” dietro l’inganno, l’illusione e la parvenza del fenomeno. Solo il filosofo capace di interrogarsi sulla sua esistenza e sull’essenza della sua vita, secondo Schopenhauer, può riuscire a squarciare il “velo di Maya” (com’era chiamata, dalla sapienza indiana, la realtà illusoria che ci appare ai nostri occhi) e superare l’apparenza.  

Come per Kant, Schopenhauer riteneva che la nostra mente filtrasse la realtà attraverso le forme a priori che le sono proprie (spazio, tempo e causalità, l’unica delle 12 categorie kantiane che riconosceva valida). La realtà, nel momento in cui l’uomo la osserva, subisce dunque una deformazione ed il fenomeno non è altro che una mera ingannevole rappresentazione che esiste unicamente nella nostra coscienza ma non costituisce la verità.

Schopenhauer arriverà così a sostenere che “il mondo è la mia rappresentazione” (tesi con cui si apre la sua opera principale) e che la vita altro non è che un “sogno”.      


L’unico modo per rompere l’inganno del fenomeno è, secondo Schopenhauer, la possibilità dell’uomo di viversi non come intelletto o conoscenza ma come corpo. L’uomo, difatti, nel momento in cui non si rivolge alla realtà esterna utilizzando spazio, tempo e causalità con cui individuiamo e distinguiamo le cose del mondo (fenomeno) scopre che dentro di sé risiede la sua vera essenza, la sua cosa in sé: la volontà di vivere. Si tratta di un impulso impellente a cui nessuno può resistere, che spinge a esistere e agire. Tale volontà non appartiene unicamente all’uomo ma ad ogni essere della natura, è il noumeno, l’essenza dell’intera realtà, è estendibile e comune al Tutto. 


L’unica volontà comune a tutti gli esseri viventi, per Schopenhauer, si manifesta nel mondo fenomenico in due momenti:      


  1. prima si concretizza in un insieme di idee eterne (considerate, come per Platone, archetipi del mondo)
  2. dalle idee, secondo un rapporto di copia-modello, si creano tutti gli esseri del mondo


Secondo Schopenhauer riconoscere che la vera essenza della realtà è la volontà, equivale a dire che la vita è dolore, è sofferenza perenne. Volere significa infatti desiderare ed il desiderio è mancanza di qualcosa, vuoto, dolore. Il piacere rappresenta solo una momentanea cessazione del dolore, il quale sopraggiunge nuovamente non appena è temporaneamente appagato. 


Tra il dolore e il piacere si colloca la noia, che è la situazione in cui viene a trovarsi l’uomo nel momento in cui placa temporaneamente i suoi desideri.   


Il pessimismo di Schopenhauer:   


è cosmico, universale ed interessa ogni creatura. L’uomo avverte maggiormente il dolore in quanto è soltanto più consapevole e dunque più ricettivo nei confronti dei propri desideri e dei dolori conseguenti.

la sofferenza universale è concretizzata nella lotta di tutte le cose (l’autoconservazione di un essere è garantita a patto di “passare sul cadavere” di un altro)

l’unico fine della natura sembra essere quello di continuare a perpetuare la vita e, dunque, il dolore. L’amore come strumento per la riproduzione: L’individuo non é altro, infatti, che uno “strumento” al servizio della specie. Ciò è particolarmente evidente nel fine dell’amore che per S. non è il piacere o la felicità dell’uomo, bensì l’accoppiamento e la riproduzione. Non esiste amore senza sessualità. 


L’uomo cerca di celare a se stesso la sofferenza insita nella propria vita attraverso alcune “bugie”: 


  1. all’idea di un Dio o Ragione che governa il mondo rendendolo il regno della logica e dell’armonia (Hegel), Schopenhauer contrappone una visione atea e profondamente irrazionale della vita. Anche la storia, lungi dall’essere caratterizzata da continuo progresso, è solo ripetizione di una sofferenza immutabile.
  2. alla tesi della insita bontà e socievolezza dell’individuo contrappone la visione della natura maligna, egoista e aggressiva dell’essere umano. Lo Stato e le sue leggi esistono unicamente come risposta al bisogno dell’uomo di difendersi e non come apice dell’etica (Hegel).


La risposta al dolore del mondo non può, secondo Schopenhauer, consistere nel suicidio: anzichè essere una liberazione dalla volontà di vivere ne costituirebbe, infatti, la sua più forte affermazione. Il suicida non nega la vita ma è soltanto “malcontento delle condizioni che gli sono toccate”.


La via per liberarsi dalla volontà di vivere e dagli egoismi ad essa connessi, consta in prima luogo della presa di coscienza del dolore (si passa dunque dalla voluntas alla noluntas) e avviene attraverso tre momenti:  


L’arte. Attraverso l’arte l’uomo contempla la vita anziché essere immerso nei sui bisogni e nella volontà egoistica (le cose specifiche della realtà diventano i modelli eterni e universali delle cose: questo corpo bello diventa la bellezza, quest’amore diventa l’amore). L’individuo si rivolge alle idee e si sottrae ai desideri quotidiani e ai conseguenti dolori. L’arte risulta quindi essere liberatrice (la musica in particolare), catartica, in quanto ci offre una disinteressata contemplazione della vita e non una partecipazione vera e propria. Ma la funzione positiva dell’arte è passeggera in quanto offre all’uomo una momentanea pausa ed estraniamento dalla vita.

La pietà. Al contrario dell’estraniamento dell’arte, la pietà obbliga l’uomo a superare nella vita quella che è la fonte principale di dolore: la lotta tra gli individui. Provando infatti “com-passione”, cioè empatizzando con la sofferenza dell’altro, ci identifichiamo con lui. Superiamo così quella illusoria divisione fenomenica tra chi soffre e chi arreca sofferenza (ottenuta attraverso il filtro dello spazio e del tempo), squarciamo il “velo di Maya”. Sperimentiamo dunque il noumeno, l’unità degli esseri e l’unicità della volontà. La pietà, dunque, quando diventa carità, rappresenta il vero amore in quanto ci porta a fare del bene al prossimo in modo disinteressato (diversamente dall’amore carnale, egoistico e interessato).

Nonostante la pietà costituisca una vittoria contro gli istinti egoistici, l’uomo rimane pur sempre legato alla vita. L’unica vera liberazione dalla sofferenza è estirpare la volontà di vivere cioè il desiderio di esistere e di volere. In questo consiste l’ascesi, che comporta la castità (intesa come rifiuto dell’impulso riproduttivo), il digiuno, la povertà, il sacrificio, l’ automortificazione. Solo con l’ascesi l’uomo può raggiungere il nirvana. Sperimenta cioè una vera e propria negazione del mondo e dei bisogni e volontà individuali. La redenzione di un solo uomo, secondo S., libererebbe l’intero mondo dal gioco della volontà di vivere (in quanto quest’ultima è unica).


Schopenhauer era fortemente convinto che non ci fossero differenze fra esseri umani e animali e tanta attenzione al rapporto uomo-animale nasceva dal rapporto del filosofo con il suo barboncino bianco.


Schopenhauer andò a vivere da solo dopo essersi trasferito nel 1833 a Francoforte, ma in sua compagnia prese con sé un barboncino bianco, anche se sembra che i suoi ultimi anni di vita furono sempre in compagnia di cani, probabilmente tutti barboncini.


Generalmente il nome del cane era Brahman, ma veniva soprannominato Atman; entrambi i nomi vengono dal sanscrito e dalla filosofia induista.


Nel suo studio erano appesi 16 incisioni raffiguranti animali e sembra che il suo cane fosse l'unica presenza (quasi) sempre gradita, anche se anche con lui ci furono discussioni, al punto da meritarsi l'appellativo di "mensch": umano.

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